Teatro

LA CENERENTOLA DI PONNELLE

LA CENERENTOLA DI PONNELLE

La Cenerentola di  Jean–Pierre Ponnelle, come del resto i suoi allestimenti del Barbiere di Siviglia e dell’Italiana in Algeri, sono dei classici che non seguono le mode e, nonostante siano passati quasi quarant’anni dalla loro creazione, continuano a essere riproposti con successo in quanto sono capaci di parlare con la stessa immediatezza a generazioni diverse di pubblico.
La Cenerentola, una delle prime opere di Rossini messe in scena dal regista francese, fu creata all’inizio degli anni ’70 per il Maggio Musicale e da allora il fortunato allestimento ha fatto il giro del mondo, ma stranamente a Parigi non era mai stata rappresentata e ora “debutta” all’Opéra Garnier in una ripresa curata da Grischa Asagaroff, storico collaboratore di Ponnelle.

La cifra dello spettacolo sono le scene in bianco e nero create dallo stesso regista che disegnano sul sipario come un trompe l’oeil il fatiscente palazzo di Don Magnifico, la facciata si scosta ed appare l’interno di  una casa di bambola con le camere in disordine disposte ai lati e un atrio buio al centro con il camino. L’efficace impianto scenico consente di seguire in simultanea quanto avviene nel palazzo senza interrompere la mobilità  narrativa: il risveglio di Don Magnifico, le due sorellastre che fanno toeletta, l’andirivieni di Cenerentola ed il fortuito incontro con Don Ramiro.
Un’infilata di gallerie dai decori eleganti e stilizzati in toni seppia regalano profondità  prospettica al Palazzo del Principe che sembra uscito da un libro di fiabe d’altri tempi, esso stesso fatto di carta; le scene dipinte, l’uso dei sipari per i veloci cambi scena, le corde appese da teatro delle marionette, tutto sottolinea l’illusione teatrale e, nel rendere evidente la finzione lo spettacolo, costituisce un omaggio al teatro ed alla sua componente artigianale.
Vi aleggia un senso di nostalgia e malinconica dolcezza e il personaggio di Cenerentola ha un’aura di poesia, ma non manca il sorriso. La produzione ha un meccanismo teatrale perfetto e un’ironia leggera particolarmente pertinente con il melodramma giocoso che risulta scorrevole ed equilibrato senza cadute di stile. Irresistibile l’entrata in scena di Dandini vestito da principe che avanza impettito su di un tappeto rosso che  gli srotolano i cortigiani obbligando Don Magnifico e le sorelle a indietreggiare con una sorta di passo dell’oca, oppure quando nel finale primo l’azione è bloccata con tutti che non vedono l’ora di gettarsi sulla tavola imbandita, persino Cenerentola. I cortigiani di Don Ramiro sono presenze marcate ed irriverenti che sembrano tradurre il punto di vista di Ponnelle: apparentemente servitori fedeli, in realtà annoiati e distratti, trovano ogni pretesto per trastullarsi, anche con le rose in omaggio al  Principe, che diventano spazzole per grattarsi la schiena.

Rossiniane eccellenti hanno trionfato nel corso degli anni nella produzione di Ponnelle (Berganza, Von Stade, Valentini Terrani), ora è  la volta di Karine Deshayes, applaudita di recente a Parigi nel ruolo di Rosina. La sua Angelina convince per sensibilità  e delicatezza innate e si apprezzano le colorature ardite; tecnica e stile sono ineccepibili, ma la parte contraltina vorrebbe centri e gravi più importanti. Javier Camarena è un Don Ramiro generoso, dalla voce squillante adatta allo slancio amoroso; non avrà sovracuti sfolgoranti, ma la linea è  curata e fraseggia con gusto. Di classe i due buffi: cinico e ironico il Don Magnifico di Carlos Chausson dall’ottimo medium e doti da virtuoso, dalla comicità  elegante l’arguto Dandini di Riccardo Novaro. Alex Esposito ancora una volta conquista  per  bellezza timbrica e capacità di accento e l’aria di Alidoro acquista grande rilievo, ma l’impostazione troppo seriosa del ruolo voluta da Ponnelle ne limita la naturale verve attoriale. Ottime attrici e diversamente caratterizzate le due sorellastre, la Clorinda che si atteggia a ballerina di Jeannette Fischer e la Tisbe dal naso finto e viso impiastricciato di Anna Wall.

Qualche perplessità  sulla direzione di Bruno Campanella che, nell’adottare tempi decisamente lenti, compromette la componente giocosa e la vivacità  ritmica rossiniana: una lettura che guarda in avanti, cogliendo quanto di Donizetti o Bellini ci sia nella partitura, ma che, nel privilegiare elegia e malinconia, perde in dinamica. Buona la prova del coro preparato da Alessandro Di Stefano dal movimento scenico irresistibile.

Pubblico soddisfatto e tutte le recite esaurite confermano la forza di un classico.